Il coraggio di dire IO

01/10/2021

Non è facile spiegare in parole semplici lo scopo di una terapia psicologica o comunque quelle che sono le modalità attraverso le quali agisce. Faccio un tentativo…

Penso che l’obiettivo finale sia quello di accompagnare una persona a riattivare una capacità che abbiamo tutti sin da quando siamo piccoli, la capacità di guardarci e di riflettere sulle nostre azioni ed i nostri pensieri, la capacità di cogliere cosa di nostro c’è in ogni singola situazione, di riconoscerci in ciò che abbiamo intorno.

Questa è una capacità di essere presenti a noi stessi che abbiamo tutti sin dai nostri 18 mesi circa di vita, ed è una capacità propria dell’essere umano, ma è anche una capacità a volte poco esercitata, forse scomoda e poco apprezzata al giorno d’oggi.

La buona notizia è che è possibile in qualsiasi momento e a qualsiasi età rimetterla in funzione: quando si arriva a una certa consapevolezza di sé, questa non è una capacità data una volta per tutte e stabile, subisce variazioni e oscillazioni. Io dico spesso ai miei pazienti, però, che è come andare in bicicletta: una volta che si impara poi è più semplice riacquisirla se la si perde di vista temporaneamente.

In linea di massima, quando accade qualcosa, l’istinto umano porta a trovare delle cause e, tendenzialmente, si cerca per lo più una responsabilità esterna. Sicuramente rassicura individuare una causa e forse anche che la “colpa” sia altrui.

Poi però accadono quelle situazioni in cui la congiuntura astrale è particolarmente sfavorevole e a volte si sommano più fattori di una certa entità, che sbaragliano le nostre certezze e anche tutti i nostri timidi tentativi di dare un senso alla realtà, di trovare delle cause e delle motivazioni.

Quello che mi ritrovo molto spesso a dire alle persone è che la vita è, accade, non è né buona né cattiva. Questo però è un boccone molto indigesto, difficile da accogliere e tollerare per chi non è in contatto con se stesso. La serenità che dona il conoscersi è data dalla tranquillità del potersi guardare: tutti gli eventi costituiscono infatti degli specchi, delle occasioni per guardarci in faccia. Se c’è questo allenamento, l’impatto dell’evento che accade si incassa, altrimenti diventa deflagrante. 

Quando si dice che un evento è traumatico (leggi difficilmente o faticosamente digeribile ed assimilabile nella vita di una persona) ciò non dipende semplicemente dall’entità dell’evento in sé (pur riconoscendo che esistono sicuramente intensità differenti e quindi eventi di differente masticabilità), ma dalla reazione delle persone all’evento. Di fronte a ciò che accade, noi abbiamo la possibilità di assecondare il flusso delle cose, oppure di irrigidirci e opporci, negando e arrabbiandoci per quanto vediamo succedere. Racconto spesso alle persone che i grattacieli antisismici in Giappone riescono a superare la scossa di terremoto e a “sopravvivere” per il solo fatto che assecondano e vanno dietro all’onda sismica, in pratica oscillano e si muovono dietro all’onda. Insomma, la rigidità nella vita non paga mai, anzi. 

Come prova di tutto ciò possiamo dare uno sguardo alla situazione attuale di emergenza (prolungata): credo ci stia fortemente sottolineando e ricordando che siamo piccoli di fronte alla vita, e che l’atteggiamento più saggio è quello di rispetto nei confronti di questa vastità di cui noi siamo solo una piccola parte. Pur essendo piccoli, però, abbiamo una possibilità grande e fondamentale, che fa la differenza e che nessuno o nessuna condizione può mai toglierci: la capacità di pronunciarci, di reagire e di affrontare ciò che ci si para davanti. Può sembrare poco, ma credo che sia tutto ciò che possiamo fare. E questo fa davvero la differenza sul nostro benessere.

In questi mesi di grandi difficoltà, abbiamo visto persone che hanno negato quanto stava e sta succedendo, altre che ora sono terrorizzate nel muovere un passo, avendo ben colto la nostra umana fragilità. Ho ascoltato persone che hanno visto con la pandemia realizzare i loro più segreti e angosciosi incubi, quelli in cui abbiamo chiaro davanti agli occhi come non possiamo davvero controllare tutto quanto, come desideriamo e come spesso ci illudiamo di poter fare.

Infine, ci sono le persone che provano a guardare in faccia la situazione e a muovere umilmente dei passi, continuando a vivere, magari non come prima, adattandosi alla situazione e cercando di incanalare le loro esigenze all’interno della corrente del fiume, che non è decisa da noi: queste persone sono spaventate, ma non terrorizzate, perché, potendo stare davanti alla propria paura e al proprio limite, non ne sono schiacciate.

A questo punto torniamo alla terapia. Chi giunge a chiedere aiuto psicologico spesso è una persona sofferente, in difficoltà. Gli eventi hanno messo a dura prova le sue certezze, bucato la corazza di spiegazioni e teorie che un po' tutti noi ci costruiamo. Qualcosa non torna, siamo nudi di fronte alla realtà. Spesso chi viene a chiederci aiuto, all’inizio, ci chiede soltanto di dargli una mano a riparare la falla nella diga, di fornirgli un velo per riparare la nudità, di aiutarlo a ripristinare quel controllo così ambito e che per qualche misteriosa ragione si è perso. E stop. 

Io sono abituata a dire che non sono capace di fare questa cosa e che oltretutto non penso sia qualcosa che li possa far stare, in definitiva, bene. Qualcuno resta fedele al progetto iniziale e se ne va dopo aver rattoppato il buco che si era creato. Qualcun altro ci prova, ma appena la sofferenza si riduce un po', diventa difficile poter proseguire. Perché il dolore è occasione, ma mai obbligo. Freud scrisse che “se davvero la sofferenza impartisse lezioni, il mondo sarebbe popolato da soli saggi. E invece il dolore non ha nulla da insegnare a chi non trova il coraggio e la forza di starlo ad ascoltare”. Per cui ci sono persone che arrivano e se ne vanno, magari per tornare dopo qualche tempo.

E poi ci sono quelli che si appassionano assieme a noi al viaggio, quello più bello e più interessante, ma anche più spaventoso: quello dentro di noi. Sono quelli che ti concedono il privilegio di accompagnarli per un pezzo della loro vita, alla ricerca del loro io più profondo, della loro verità.

Inizi smontandogli un po' di scuse, di proiezioni, di tentativi di distribuire la responsabilità agli altri. Perché è proprio vero, “tutti pensano di cambiare il mondo, ma nessuno pensa di cambiare se stesso” (Tolstoj). Lavorare su se stessi, invece, significa innanzitutto smettere di aspettare che siano gli altri a cambiare e dirigere lo sguardo verso dentro. Scoprendo, tra l’altro, che gli atteggiamenti degli altri c’entrano con noi. 

Non è di facile e immediata intuizione, ma ciò che non abbiamo digerito ed elaborato nel passato tendiamo a ripeterlo nel presente, anche nel futuro se non spezziamo la catena. Vuol dire che se mi capita di vivere una relazione fatta in un certo modo, se non riesco a cogliere cosa c’è di mio in essa, finisce che mi rimetto, inconsapevolmente ma non casualmente, in situazioni simili. Ripetere è un tentativo rudimentale di elaborazione. La lingua batte dove il dente duole, insomma, nella speranza che io riesca a farci qualcosa, a prendermi in mano la situazione. Se ciò non accade, la nuova occasione resta una sterile ripetizione, nulla di più di un copia e incolla.

In terapia si passa anche attraverso il rettificare visioni, il fornire prospettive diverse, alternative. Il punto di tutto ciò non è indicare le prospettive corrette e giuste, sostituendo quelle sbagliate, ma vuol essere un suggerimento: esistono diversi modi di guardare alle cose, tutti egualmente validi, a volte funzionali a volte no, ma comunque soggettivi. E l’obiettivo è che la persona si possa appropriare della propria visione in quanto propria, non di tutti, non giusta, ma propria. 

Lo scopo quindi della terapia è accompagnare una persona a ritrovare se stessa, a conoscersi maggiormente, a sapere cosa di proprio c’è in ballo nelle diverse situazioni, ad avere ben chiare le proprie teorie e le proprie prospettive, a reggere lo sguardo nello specchio che gli altri e la vita ci piazzano davanti. La terapia è una occasione per recuperare il coraggio di dire io.

Una postilla alla fine di questo scritto, perché spesso nei colloqui mi ritrovo a esplicitarlo: il fatto che un terapeuta di mestiere accompagni le persone nel percorso di scoperta e riscoperta di sé non significa che il terapeuta sia un essere superiore, sempre in grado di sapere cosa lo riguarda, sempre in contatto con se stesso. Un terapeuta, forse, è solo una persona come le altre che, avendo fatto un suo percorso di studi e di conoscenza di sé nel pregresso, prova a mettere in gioco una disponibilità: la disponibilità a vedersi mentre accompagna l’altro a guardarsi. Perché le dinamiche di un paziente sono le stesse del terapeuta, entrambi appartengono al pianeta terra.

E questa disponibilità è una cosa grande, perché insieme anche la notte più buia fa meno paura.