“Un grido è stato udito in Rama,

un pianto e un lamento grande:

Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata,

perché non sono più”

 

 

Cara Valeria,

 

scelgo di parlare ate in questa lettera in cui tu stessa mi hai suggerito di rileggere la stradache abbiamo fatto assieme. Lo faccio in un giorno speciale, un po' per caso, unpo' per volontà: oggi è il 28 Dicembre, il giorno dei Santi Innocenti. Oggi chiudogli occhi e le porte e mi metto in ascolto; ascolto il grido di Rachele, quelpianto che è stato anche il mio e che ha lacerato il mio cuore pochi mesi fa.

Faccio quello cheabbiamo fatto insieme da ormai 9 mesi, in una gestazione all’incontrario: ascoltareil dolore, senza chiudergli le porte, accoglierlo prendendosene cura, senzafretta di consolare, perché Rachele non vuole essere consolata, Rachele piangei suoi figli, perché essi non sono più, semplicemente.

Il figlio per cuiho pianto si chiama Alcide, è nato il 25 Marzo 2021, al quinto mese digravidanza, morto.

In questa letteravorrei ripercorrere con te la prima, drammatica, nascita di Alcide, eriguardare anche la gestazione della sua morte, dopo nove mesi, come unaparadossale gravidanza in cui insieme lo abbiamo riportato alla luce. E questofiglio è rinato, davvero, e non solo lui, ha fatto rinascere anche me. Sipotrebbe chiamarla elaborazione del lutto, accettazione del dolore, superamentodi un trauma, a me piace pensarla come una gravidanza all’incontrario, unagravidanza in cui ci siamo prese cura del dolore, l’abbiamo cullato, accudito,amato, e con il tempo esso si è trasformato, e mi ha trasformata, per rinasceree farmi rinascere. Ora il ricordo di Alcide non fa più male, anzi è diventatodolce e tenero, accompagnato da un forte sentimento di gratitudine.

Ma andiamo conordine, tornando a quel 25 Marzo 2021.

Pochi giorni dopoil parto di Alcide provo a raccontare con queste parole quello che era successoe che stava succedendo, a cominciare dal primo aborto, avuto solo qualche meseprima del concepimento di Alcide:

 

“L'anno scorso, a settembre 2020, rimango incinta. Aspetto a fare icontrolli, tanto tutto sarebbe andato bene. A 11 settimana la prima ecografia,il mio utero vuoto, il bimbo che avevo in grembo si era fermato a 6 settimane.E io niente, non mi ero accorta di niente, per un mese sono stata la tomba dimio figlio senza accorgermene. Sanguino ininterrottamente per almeno i due mesisuccessivi. Il mio corpo mi stava dicendo quanto dolore stavo provando.

A novembre 2020 rimango di nuovo incinta. All'inizio avevo paura,paura di non essere già pronta, paura di tante, troppe cose. La mia testacontinuava a remare contro il mio cuore, che questo figlio già lo abbracciava elo desiderava con tutto sé stesso. I primi mesi passano, e continuo ad averepaura, ora so che non è scontato sentir battere il cuore di tuo figlio. Ma poilo sento, lo vedo, si muove, inizio a dire agli altri e a me stessa che staarrivando sul serio, che sono davvero incinta. La mente però continua a remarecontro, tanti i pensieri negativi che affollano la mia mente, tanta la pauraper l’arrivo di questo nuovo figlio. Nel frattempo la pancia cresce. Supero ilprimo trimestre, attendo con ansia l'arrivo della morfologica per scoprire ilsesso, desidero tanto un maschietto. La morfologica non è mai arrivata. Adiciassette settimane, durante una visita di controllo ancora quelle facce,ancora quel silenzio. 'Signora, il cuore ha smesso di battere'. Questa volta scoppioin lacrime, un coltello mi lacera il petto, me lo squarcia. Grido dentro efuori di me, no no no...

 Il 25 marzo 2021 alle 15.33nasce Alcide, tra le lacrime e il dolore. Appena nato voglio vederlo, il suocorpicino abbandonato... è un maschio. La mia cara ostetrica lo prepara dentrouna garza e me lo adagia tra le mani. Lo guardo, lo cullo, bacio i suoi piediniperfetti. Il mio bambino, il mio bellissimo bambino. Mio marito entra e trovail coraggio di guardarlo. Scoppia in lacrime. In quel momento siamo diventatiinsieme i suoi genitori, genitori nuovi, genitori nel dolore. Abbiamo deciso didargli il nome che avevamo scelto per lui: Alcide, che significa forza. Forsenon avremmo dovuto chiamarlo così. Eppure quando ripenso ai pochi, preziosi,intensi momenti che abbiamo condiviso insieme capisco che è proprio quello ilnome giusto per lui: la sua è la forza della debolezza.”

Questo era quello che scrivevo poco dopo quel 25 Marzo. Reducedall’aborto inaspettato di questo bimbo, nascoste tra la montagna di dolore e iruggiti dei sensi di colpa, si fanno strada due intuizioni: la prima misuggerisce di attraversare il dolore senza sconti, di entrare nella grottascura della morte di questo bambino, che era diventata un po' anche la miamorte, e iniziare ad attraversarla con fede, senza certezze, ma con la speranzache in fondo a questo dolore mi avrebbe sorpresa una nuova luce. La seconda,che emerge chiaramente anche da quanto scrivo, mi dice di non distogliere losguardo da quel corpicino abbandonato, che in quella debolezza infinita delcorpicino di Alcide si nasconde una forza paradossale, che sarebbe potutadiventare anche la mia. Alcide voleva insegnarmi quanto si può essere fortiquando si è deboli.

Inizia dunque questo cammino dentro al buio, guidato, o meglio,accompagnato da te, Valeria, grazie al preziosissimo aiuto di supportopsicologico che mi offre il consultorio. Qui bisognerebbe scrivere un’altralettera per esprimere tutta la gratitudine per questo aiuto che mi è statoofferto, gratuitamente peraltro, ma mi limiterò solo a ringraziare, raccontandola mia storia, nella speranza che quanto io ho ricevuto possa essere unapossibilità per tante altre persone che hanno vissuto o vivranno questaesperienza. Il percorso di psicoterapia è stato accompagnato anche dal sostegnoprezioso di altre persone con le quali sono stata libera di condividere questocammino. Tanto che, mentre camminavo mi sono scoperta io stessa capace dimettermi in ascolto di quel grido, che non era più solo mio, era di tante altredonne e uomini, e che spesso veniva represso, soffocato, perché di luttoperinatale, e di lutto in generale, è difficile e molto spesso sconveniente,parlare. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di celebrare pubblicamente ilfunerale di Alcide, per affermare un dolore a cui troppo spesso non si dàdignità di esistere, come troppo spesso si toglie dignità a questi bambini chevivono solo nel grembo materno. Ma la loro è una vita talmente tanto intensache la percepisci solo quando ti viene tolta, quando ti accorgi del buco chelascia. Il funerale di Alcide è stata una festa, in cui abbiamo cantato,pianto, portato alla luce un dolore sepolto. Dentro quella minuscola tomba nonc’era soltanto il corpicino di Alcide, mi sembrava che essa contenesse tutti ibimbi morti troppo presto, oppure mai neppure concepiti. Alla fine delfunerale, una zia di mio marito, che aveva vissuto la mia stessa esperienzaalmeno vent’anni prima, mi prende in disparte in lacrime, e abbracciandomi miringrazia per avergli dato la possibilità di salutare finalmente suo figlio. Ilfunerale di Alcide non è stato solo il funerale di Alcide.

Tornata a casa, è iniziato il percorso di terapia, perché sapevo cheavrei avuto bisogno di supporto per attraversare quella valle oscura. Valeria,tu mi hai accompagnata, una volta alla settimana, in questo viaggio di custodiadel dolore, così lo chiamerei. Siamo abituati a rimuovere ed allontanare ciòche ci fa star male, che ci rende fragili e deboli, ma, come scrivevo prima, ioora non volevo e non potevo farlo: rimuovere quel dolore significava ancherimuovere quel figlio e il dolore di quell’assenza era ciò che lui mi avevalasciato, dovevo averne cura, farlo crescere, e, chissà, col tempo,trasformarlo. E così è stato, il dolore si è trasformato, e ora, guardandoindietro trovo che sia il regalo più prezioso che mi abbia consegnato Alcide.Per fortuna non l’ho buttato via, per fortuna ne abbiamo avuto cura assieme.

In quei giorni, scatto delle foto per lavoro con un’amica fotografa,che conosce la mia storia e quello che sto attraversando. Mi consegna questafoto che abbiamo fatto con nel cuore Alcide, e che è diventata per mel’immagine di quello che stavo imparando a fare in quei giorni: prendermi curadel dolore, cullare il vuoto e farlo diventare tenerezza. Trasformare la tombavuota in una fonte di luce.

Difficile dire come è accaduto, ma è accaduto. Nel tempo il vuoto si èriempito, il dolore si è trasformato in vita, il pianto si è mutato in ballo.Guardandomi indietro credo che ciò che è stato determinante in questatrasformazione, che comunque sfugge in ogni modo dalle nostre mani, siano statela condivisione e la fede. Condividere significava in qualche modo affermareciò che era successo, dare spazio e dignità al dolore, offrirgli uno spazio eun luogo affinché questo potesse esprimersi senza essere dimenticato troppo infretta. La fede invece è nata dentro al buio stesso, è quella forza che tiporta a camminare dentro il buio con la segreta speranza che il buio stesso sitrasformerà, e ci trasformerà. In questo mi ha guidato Alcide. Con il passare deimesi il rapporto con questo bambino evolveva in una misura paradossale: “questofiglio da custodito si fa custode, da accompagnato accompagnatore, fratellomaggiore più che figlio” (sono parole che mi sono state scritte da un’altramamma speciale, che ha attraversato la mia stessa esperienza, e che ora sentocosì personali e vere!)

Il percorso di terapia ha accompagnato e favorito questa nascita,accogliendo le lacrime, la rabbia, la terribile nostalgia, per trasformaretutto ciò, poco a poco, in una nuova esistenza, più vera e completa perchérinata dal dolore. Il frutto maturo della morte di Alcide credo che si scopriràsolo quando sarò di nuovo unita a lui, ma alcuni boccioli sono già nati e sonovisibili a tutti. Alcide ha compiuto un grande miracolo di unificazione: haunito le contraddizioni che da sempre abitano in me, facendone un insiemearmonico anche se paradossale, ha unito il cielo con la terra, che ormai nonsono più separati, ma vivono assieme, un po' di cielo in terra, un po' di terrain cielo. In quel ponte in cui si è trasformato, il mio piccolo Alcide, io cisalgo spesso, ogni volta con le lacrime agli occhi per la nostalgia lancinanteche sempre porterà con sé. Eppure quel ponte è la cosa più preziosa e piùfragile che ho, da custodire gelosamente, la mia forza, che mi ricorda che peressere felici non bisogna sempre vincere, che la debolezza può essere la forzapiù efficace che abbiamo, perché ci fa abbandonare al soffio del vento che citrasporta in alto, che ci trasforma, che ci rende leggeri come uccelli chevolano sotto un cielo benigno.

In questo 28 Dicembre, dopo aver ascoltato il grido di Rachele, che èstato anche il mio grido, piango e sorrido. Ti ringrazio Valeria, con tutto ilcuore, per avermi aiutato a non lottare contro le contraddizioni, per avermiaiutata ad accettare il pianto insieme al sorriso senza scandalizzarmi troppo,per avermi restituito tra le braccia il corpo trasformato di Alcide.

 Ma la mia più grandegratitudine va al mio bambino, al mio Alcide, per avermi attraversata, abitata,ferita, per avermi lasciata vuota e sanguinante, per aver scelto il mio gremboper morire e nascere, per avermi visitata, per avermi riempita di dolore, peravermi insegnato che la vita rinasce dentro e dopo la morte, per avermi trasformata,unificata, alleggerita, per avermi donato questa immensa gratitudine di essereviva, di nuovo e per sempre.

Con tutto il mio cuore e il mio amore, grazie, mio piccolo, fragile,grande bambino.

Laura